Menare il can per l'aia

Menare il can per l'aia
 

Di uno, che favella favella, e favellando favellando con lunghi giro di parole, aggira se e gli  altri, senza venire a capo di conclusione alcuna.

L'origine della locuzione non è però chiara. Nelle note al Malmantile racquistato (1688), Paolo Minucci si limita a parafrasare la locuzione così:
«L'aia è un luogo troppo piccolo per un cane da caccia»
(Paolo Minucci sub voce "E co' suoi punti mena il can per l'aja")

La stessa Accademia della Crusca dà come fonte autorevole per l'inclusione della locuzione nel proprio Dizionario l’Ercolano di Benedetto Varchi (1565):
«Di quelli che favellano, o piuttosto cicalano assai, si dice: egli hanno la lingua in balìa; la lingua non muore, o non si rappallozzola loro in bocca, o e' non ne saranno rimandati per mutoli: come di quelli che stanno musorni: egli hanno lasciato la lingua a casa, o al beccajo; e' guardano il morto; o egli hanno fatto come i colombi del Rimbussato, cioè perduto 'l volo. D'uno che favella, favella, e favellando, favellando con lunghi circuiti di parole aggira sé, e altrui, senza venire a capo di conclusione nessuna, si dice: e' mena 'l can per l'aja: e talvolta, e' dondola la mattea; e' non sa tutta la storia intera, perché non gli fu insegnato la fine; e a questi cotali si suol dire: egli è bene spedirla, finirla, liverarla, venirne a capo, toccare una parola della fine; e, volendo che si chetino, far punto, far pausa, soprassedere, indugiare, serbare il resto a un'altra volta, non dire ogni cosa a un tratto, serbare che dire.»
(Benedetto Varchi, Erc. 94, Dialogo fra Varchi e Hercolano sulla natura del volgare fiorentino).
 

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