Dante, il grande pellegrino

Il Grande Pellegrino a Roma


"Tra i fedeli che si accostarono nell'anno del Giubileo alle tombe degli apostoli ci fu un giovane mercante fiorentino, il cui nome era allora sconosciuto, venuto con gli altri a confessare le sue colpe e a chiedere indulgenza, e che guardò non soltanto le sante reliquie cristiane, ma intese la voce che sorgeva dalle antiche rovine dell'antichità e dalle pagine degli scrittori latini. Da quella visione e da quelle memorie sentì nascersi nell'animo il desiderio di raccontare la storia della sua città, figliola e creatura di Roma, Giovanni Villani, che tale era il nome di questo devoto mercante, così narra nel libro ottavo delle sue Storie:
gran parte de' Cristiani che allora viveano, feciono il detto pellegrinaggio così femine come uomini, di lontani e diversi paesi, e di lungi e d'appresso; e fu la più mirabile cosa che mai si vedesse, che al continuo in tutto l'anno avea in Roma oltre al popolo Romano duecento mila di pellegrini senza quelli ch'erano per li cammini andando e tornando, e tutti erano forniti e contenti di vettuaglia giustamente così i cavalli come le persone, e con molta pazienza, e sanza rumore o zuffe. E io il posso testimoniare, che vi fui presente e viddi. E della offerta fatta per li pellegrini molto tesoro ne crebbe alla Chiesa, e' Romani per le loro derrate furono tutti ricchi. E trovandomi io in quello benedetto pellegrinaggio nella santa città di Roma, veggendo le grandi e antiche cose di quella, e leggendo le storie e gran fatti de' Romani scritte per Virgilio e per Salustio, Lucano, Tito Livio, Valerio, Paolo Orosio, e altri maestri d'istorie, i quali così le piccole come le grandi cose descrissono e eziandio delli stremi dello universo mondo per dare memoria e esemplo a quelli che sono a venire, presi lo stile e forma da loro, tutto che degno discepolo non fossi a tanta opera fare. Ma considerando che la nostra città di Firenze, figliola e fattura di Roma era nel suo montare e a seguire grandi cose disposta siccome Roma nel suo calare, mi parve convenevole di recare in questo volume e nuova cronica tutti i fatti e cominciamenti d'essa città, in quanto mi fosse possibile a cercare e ritrovare e seguire de' passati tempi, de' presenti e de' futuri, insino che sia piacer di Dio, stesamente i fatti de' Fiorentini e d'altre notabili cose dello universo mondo, quanto possibile mi sia sapere, Iddio concedente la sua grazia, alla cui speranza feci la detta impresa, considerando la mia povera scienza, a cui confidato non mi sarei, E così mediante la grazia di Cristo nelli anni suoi MCCC tornato io da Roma cominciai a compilare questo libro a reverenza di Dio e del beato santo Giovanni e a commendazione della nostra città di Firenze.

 

Benozzo Gozzoli, Il viaggio di Agostino da Roma per Milano (scena 7), 1464-65, affresco,
Sant' Agostino, Cappella del Coro, San Gimignano
Statua di Bonifacio VIII al Museo dell'Opera del Duomo


 Ma accanto all'acuto cronista fiorentino che con animo lieto osservava lo spettacolo meraviglioso della Roma pagana e cristiana,
c'era un altro figlio di San Giovanni che vedeva la città santa con occhio ben diverso. Vestito d'onestissimi panni, di mediocre statura, alquanto curvetto, col volto lungo e il naso aquilino e gli occhi anzi grossi che piccioli, di color bruno coi capelli e la barba spessi, neri e crespi, e sempre nella faccia malinconico e pensosoDante si aggirava sdegnoso e incompreso tra quella moltitudine di piccole anime oscure: a lui che ammirava negli scrittori latini le gesta dei romani antichi, i moderni abitatori dell'urbe apparivano pe' lor tralignati costumi sopra a tutte le genti corrottissimi, e il loro dialetto gli sembrava triviale e imbastardito in confronto della sua schietta parlata toscana, così che quasi inorridiva sentendosi dire da taluno, secondo l'esempio addotto nel De vulgari eloquentia: "Mezzure, quinto dici?" per "Messere, come dici?" La sua curiosità non era eccitata dai monumenti antichi, che pure ammirava nella loro imponente maestà, così che raramente li ricorda nelle sue opere, come in un punto del Convivio, ove scrive: "E certo di ferma sono opinione, che le pietre che nelle mura sue stanno sieno degne di reverenza, e il suolo dov'ella siede sia degno oltre quello che per gli uomini è predicato e provato."
 

Roma, piazza Sidney Sonnino, 5


Ma il concetto della grandezza di Roma è scolpito profondamente nell'anima di Dante. Roma dev'essere il centro della potestà civile, la legislatrice e maestra delle genti; e l'imperatore, indipendente dalla Chiesa, deve ripetere il suo potere dal popolo romano; egli dev'essere principe universale, la cui volontà sia legge suprema che regoli il mondo, avendo sotto di se stati e città viventi fra loro in armonia. E nel De Monarchia, volgendosi al popolo romano, Dante esclama : "O popolo felice, o Ausonia gloriosa, se mai non fosse nato colui che indebolì il tuo impero - infirmator Me imperli tisi - che fu egli stesso ingannato dalla sua pia intenzione!".
Per queste ragioni il pensiero del Poeta era in perfetta antitesi con la politica papale seguita da secoli, che Bonifacio praticava con maggiore energia dei suoi predecessori:
Il concetto che Dante aveva della potestà della Chiesa era forse troppo alto per le menti dei suoi contemporanei, e per poter maturare aveva bisogno ancora di molti secoli di lotte politiche e di conflitti spirituali. In Roma accanto alla cattedra di Pietro, Dante sognava il trono imperiale. Se Roma era stata stabilita per lo loco santo u' siede il successor del maggior Piero, essa era pure imperadrice, che aveva avuto da Dio "special nascimento e special processo.... La gloriosa Roma fu ordinata per lo divino provvedimento".
E mentre tutti i fedeli convenuti dalle terre più lontane si inchinavano alla potenza delle somme chiavi, Dante vedeva fremendo il vicario di Cristo dispensare due o tre per sei e la fortuna di prima vacante, e invece di praticare la dottrina di pace dell'Evangelo, alimentare per amor di potenza terrena le discordie e le lotte fraterne. Di queste lotte egli stesso doveva esser vittima, l'anno seguente al Giubileo, quando per l'arrivo di Carlo di Valois, paciaro del Papa, s'instaurava in Firenze un regime di persecuzioni politiche."

Tratto da Antonio Muniz, Roma di Dante, Milano, Bestetti & Tumminelli, 1921

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