Il concorso del Biancone

Il concorso del Biancone.

Doveva, cioè, presentarsi una di quelle occasioni che bastano a fare la riputazione e la fama d’un artista. Un concorso del quale sarà durevole il ricordo nella storia dell’arte, non solo per il nome degli artisti che vi parteciparono e per l’esito contrastato che ebbe; ma anche, e più singolarmente, per lo scalpore, o meglio, per lo scandalo rumoroso che suscitò in Firenze. 
In quella città che — per quanto abituata ad essere spettatrice delle più vivaci contese e gelosie, e delle implacabili inimicizie degli artisti, anche più famosi, sempre pronti a dilaniarsi, a diffamarsi ed a contendersi le più ambite commissioni e i più invidiati onori — vide allora parecchi scultori, fra i più apprezzati, dapprima contendersi un marmo di smisurate proporzioni, poi sdegnarsi della preferenza accordata a quello da essi ritenuto il meno degno, e infine deridere il vincitore per la mediocrissima opera uscita dal suo scalpello.

 

Hendrick Goltzius, Ritratto di Giambologna

Da tempo Baccio Bandinelli sollecitava l’onore di eseguire una grande fontana monumentale pel Duca Cosimo I sulla piazza di Palazzo Vecchio. Superbo ed orgogliosissimo, desideroso di dedicarsi ad opere colossali, e pronto ad approfittare di tutte le occasioni per eclissare, almeno com’egli sperava, la riputazione dei più apprezzati artisti suoi contemporanei, coi quali aveva voluto ripetutamente misurarsi; dispregiatore perfino delle stesse opere di Michelangelo — cui aveva conteso il marmo per eseguire quel famoso Ercole e Caco, contro il quale Benvenuto Cellini saettò tante delle sue terribili invettive, e di numerose altre opere non tutte condotte con uguale impegno, — poiché a troppe cose attese per procacciarsi gran copia di lavori coi quali aumentò il numero dei nemici e dei rivali che sempre più inaspriva coi modi inurbani e irritanti, — fisso nel suo sogno senile, non tralasciava occasione per sollecitare l’ambita commissione.
E fra i molti documenti che lo attestano, abbiamo anche una lettera in data del 1551 da lui indirizzata a Jacopo Guidi, segretario del Granduca, l’attenzione del quale richiamava su alcuni disegni che gli inviava per essere sottoposti al giudizio del Principe.
"Sua E. mi ha detto —- conchiude il vecchio ed orgoglioso artista — e ripetuto che vuole che questa fontana sorpassi tutte le altre. Per obbedirgli ho fatto attive ricerche relativamente ai mastri che hanno lavorato nelle fontane di Messina: nulla è stato risparmiato per renderle magnifiche. E ciò prometto a V. E. se le mie fatiche gli piaceranno, fargli una fontana che supererà tutte quelle che oggi si veggono sopra la terra!".

 

Statua dell'Ammannati, il Biancone

 

Volle, intanto, il caso che a Carrara fosse cavato un gran blocco di marmo alto dieci braccia e mezzo e largo cinque, di che avutone notizia il Bandinelli, — narra il Vasari, — "cavalcò a Carrara, e dette al padrone di chi egli era scudi cinquanta per caparra, e fattone contratto tornò a Firenze, e fu tanto intorno al Duca, che per mezzo della Duchessa ottenne di farne un gigante, il quale dovesse mettersi in piazza sul canto dove era il lione; nel qual luogo si facesse una gran fonte che gettasse acqua, nel mezzo della quale fosse Nettuno sopra il suo carro tirato da cavalli marini, e dovesse cavarsi questa figura di questo marmo."
Della quale figura "fece Baccio più d’un modello e mostratigli a Sua Eccellenza, stette la cosa senza fare altro fino all’ anno 1559, nel qual tempo il padrone del marmo venuto da Carrara chiedeva d’esser pagato del restante, o che renderebbe gli scudi cinquanta per romperlo in più pezzi e farne danari perchè aveva molte chieste. “Fu ordinato dal Duca a Giorgio Vasari che facesse pagare il marmo, il che intesosi per l’arte, e che ancora non aveva dato libero il marmo a Baccio, si risentì Benvenuto....".

 


Benvenuto Cellini era, infatti, fra gli artisti che aspiravano vivamente alla commissione della fontana. E, fra le molte, ne abbiam testimonianza, anche, nel sonetto da lui "fatto il dì di nostro San Giovan Battista nel 1556" mentre si trovava imprigionato in Firenze per una delle sue scappate. In questo sonetto il Cellini supplica S. Giovanni perchè gli conceda "il desiato sasso" onore del quale non si crede indegno, dopo il saggio che ha dato del proprio valore col suo Perseo:
 

Vorrei, Giovanni, il desiato sasso,

S'all’alma mia salute e ’l corpo tale

Posa quel peso, e non mi faccia male,

Loderò Dio e te, nè mai fia lasso.
 

Di forze ancor non son già privo e casso,

Vorrei passare innanzi, almeno equale

A’ maggior farmi, anch’io parto immortale

Da poi che’l Franco Re mi mostrò ’l passo.
 

Qualche saggio di me Perseo pur mostra,

In alto ha ’l testio e ’l crudel ferro tinto,

Sotto ha ’l cadavro e non di spirto privo.
 

Lodato fui nella gran Scuola nostra

Per esser pria d’arte diverse cinto,

Co’ le quai grato a tutte io presso arrivo.

 

Non appena egli, dunque, seppe che il marmo non era peranco stato concesso al Bandinelli, ma che pur tuttavia erano già stati impartiti gli opportuni ordini perchè da Carrara venisse trasportato a Firenze, pur sapendo quanto brigava il Bandinelli e quanto favore godesse presso la Duchessa — che non si stancava di perorare la causa del vecchio artista, — senza porre tempo in mezzo, volò dal Duca che trovavasi in villeggiatura a Cajano per supplicarlo pel buon nome di Firenze, che doveva a concorsi artistici a tutti aperti due dei capolavori de’ quali andava ben a ragione orgogliosa e superba — la cupola di Santa Maria dei Fiori e le porte del Battistero di S. Giovanni — di non dare un’ opera di tanta importanza ad un artista quale il Bandinelli, ma di affidarla per concorso al più degno, mentr’egli per parte sua reclamava di prender parte alla gara.
Ma del colloquio ch'egli ebbe col Duca, della ostilità mostratagli dalla Duchessa e della promessa fattagli, meglio è sentire il racconto dallo stesso Benvenuto, il quale vi dedicò alcune delle saporite pagine della sua Vita.

 


Continua il Cellini narrando di aver fatto parecchi modelletti del gigante, uno de’ quali il Duca recatosi a casa per vederlo, elogiò molto, e aggiunge ancora che essendosi portato a Firenze il cardinale di Santa Fiore, visto il blocco di marmo, domandò ai Duca a chi era destinato, e che Cosimo gli rispondesse prontamente: — Al mio Benvenuto, il quale ne ha fatto un bellissimo modello. Ma sulla verità di questa affermazione, è lecito assai dubitare, conoscendo Benvenuto Cellini.
Certo è che furono tali le insistenze della Duchessa presso l’augusto consorte, che questi infine concesse al Bandinelli di murarsi un arco della loggia de’ Lanzi per eseguirvi un modello “grande quanto doveva riuscire la statua del gigante.
"Frattanto il vecchio scultore, che pur settantenne, si accingeva a si ardua impresa, non tralasciava di dedicarsi ad opere minori per assicurarsi sempre più la protezione della Duchessa, di cui abbisognava per ottenere, dopo eseguito il modello, la definitiva commissione ed il marmo. Fu infatti in quell’epoca che il Bandinelli disegnò i cartoni di alcuni quadri, rappresentanti la creazione d’Adamo ed Eva, destinati ad ornare le sale del Palazzo Ducale, e diresse varie opere di decorazione e di scultura, fatte pur queste eseguire dalla Duchessa nel giardino dello storico palazzo. Ma era destino che l’opera da lui tanto vagheggiata e sospirata, non dovesse essere compiuta dalle sue mani. Una funzione pietosa accelerò la sua fine: la sepoltura eh’ egli stesso volle dare alle ossa paterne nella Chiesa de’ Servi. Dice, infatti, il Vasari che, "o che egli pigliasse dispiacere ed alterazione d’animo nel maneggiare le nossa del padre, o che troppo s’affaticasse nel tramutarle con le proprie mani e nel murare i marmi, o l’uno e l’altro insieme, si travagliò di maniera che sentendosi male ed andatosene a casa, e ogni dì più aggravandosi il male, in otto giorni si morì essendo d’età di anni 72."
E più accreditata, però, l’opinione che il Bandinelli tanto si accorasse vedendo l’accanimento col quale, specialmente per opera di Benvenuto Cellini, venivagli disputato l’onore di eseguire la fontana del Nettuno, che finì per ammalarne ed esserne tratto al sepolcro. 

 


Comunque sia, certo è che dopo la morte del Bandinelli rimase il marmo più conteso che mai; poiché un nuovo concorrente era spuntato, e brigava e si agitava, valendosi specialmente della protezione del Vasari, che presso il Granduca godeva di grande favore, per avere l'ambita commissione: Bartolomeo Ammannato. Già la Duchessa, egli stesso lo ha scritto, aveva dichiarato a Benvenuto Cellini che "come aveva aiutato il Bandinelli in vita, così lo avrebbe aiutato e onorato ora che era morto, epperò egli Cellini non facesse mai disegno d’avere il marmo "E facile ora immaginare lo sdegno del celebre orafo fiorentino, quando ebbe la certezza che l’Ammannato per le protezioni che godeva sarebbe certamente riuscito ad avere il desiderato marmo."— Oh! sventurato marmo! egli esclama. Certo che alle mani del Bandinello egli era capitato male, ma alle mani dell’Ammannato gli è capitato cento volte peggio!"
L’Ammannato non era, invero, alle sue prime armi, nè poteva dirsi uno sconosciuto; educato alla scuola del Bandinelli e del Sansovino, vantava la protezione di Michelangelo e l’amicizia del Vasari. Si era conquistata la celebrità qualche anno innanzi per quel colosso da lui raccozzato da otto massi di marmo nella casa signorile ed ospitale di Marco Mantova Benavides, uno dei pochi mecenati veramente degni di questo nome; e per il coraggio di cui aveva dato prova, cimentandosi a trattare un nudo di così grave mole, aveva raccolto generali simpatie. Vero è che l’Ammannato merita assai maggior considerazione come architetto che come scultore, e più delle sue sculture sono ben più degni di ricordo l'elegantissimo ponte di S. Trinità sull'Arno e il palazzo Pitti che, cominciato sul modello del Brunellesco più di vent’anni avanti, fu da lui continuato, facendovi per ordine di Eleonora di Toledo il ricco e grandioso cortile, adorno di molte delle sue statue. Tuttavia egli era uomo pieno d’ardore, e mirando diritto al suo scopo, sperava di riuscire nell’intento. Anzi, avendo sentito che Giorgio Vasari doveva recarsi a Roma col Cardinale Ferdinando De Medici, lo pregò di accettare un piccolo modello in cera che aveva fatto per la fontana, affinchè lo sottoponesse al giudizio di Michelangelo. E per prevenire ogni possibile appunto circa l’atteggiamento della figura, inviò insieme al modellino un fac-simile in legno del blocco di marmo dal quale doveva ricavarsi la statua.

 

Piazza della Signoria

Perchè è da sapersi, o almeno così vuole la leggenda, e dice anche lo stesso Vasari che assistette alle vicende della fontana di piazza della Signoria, che il Bandinelli pel timore che qualche collega avesse vantaggio su lui, aveva prudentemente "fatto scemare il marmo tanto, secondo quanto che egli aveva disegnato di fare, riducendolo molto meschino e togliendo l’occasione a sè ed agli altri di poterne fare oramai opera bella e magnifica." Sarebbe avventato affermare se ciò sia conforme il vero. Certo è che la cosa allora fu detta e ripetuta, anzi lo stesso Benvenuto Cellini vi accenna nelle sue memorie. Ma non sapremmo affermare se il popolare artista, il cesellatore senza rivali sia su questo punto il testimone più attendibile.
Comunque è provato che l’Ammannato volle che il Vasari giustificasse a Michelangelo l’atteggiamento dato alla sua figura, facendogli in pari tempo comprendere come sarebbe stato impossibile, dato il marmo così come l’aveva scemato alle spalle il Bandinella dare alla figura un movimento ed una espressione diversa da quella che egli aveva imaginata. Fu favorevole il giudizio di Michelangelo al modello dell’Ammannato? E lecito affermarlo, poiché al suo ritorno da Roma tanto perorò il Vasari presso Cosimo I la causa del suo protetto, che ottenne anche a lui, quanto già era stato concesso al Bandinelli, e cioè di murare un arco della loggia de’ Lanzi onde eseguirvi in piena tranquillità e libertà il modello in grande.
Come apprendesse questa notizia Benvenuto Cellini, il quale era già stato lusingato dal Duca quando gli aveva mostrati i suoi modellini, si può immaginare. Fu tale lo strepito che lo stesso Granduca onde disarmare il bollente artista, concesse anche a lui di fare il modello di terra "della grandezza che gli usciva del marmo" come leggiamo nella autobiografia di Benvenuto Cellini, nella quale egli pure aggiunge: "e mi aveva fatto provvedere di legni e di terra, e mi fece fare un poco di parata nella loggia dov’è il mio Perseo, e mi pagò un manovale. Io missi mano con tutta la sollecitudine che io potevo, e feci l’ossatura di legno con la mia buona regola, e felicemente lo tiravo al suo fine, non mai curando di farlo di marmo, perchè io conoscevo che la Duchessa si era disposta che io non l’avessi, e per questo io non me ne curavo; solo mi piaceva di durare quella fatica, colla quale io mi promettevo, che finito che io l’avessi, la Duchessa, che era pure persona d’ingegno, avvenga che la l’avessi dipoi veduto, io mi promettevo che e’ le sarebbe incresciuto d’aver fatto al marmo ed a sè stessa un tanto smisurato torto".

I due artisti, l’Ammannato e Benvenuto Cellini, si erano appena accinti al lavoro, quand’ecco due giovanotti si presentarono, domandando essi pure di essere ammessi alla gara: l’uno raccomandato da Ottaviano De Medici, l’altro dal Vecchietti e dal Duca Francesco: Vincenzo Danti e il Giambologna.
Il primo dei quali, — eccellente fonditore, artista di fine pensare e di sicure teorie sull’arte, come lo attesta un prezioso libretto, oggi rarissimo, nel quale trattò teoricamente e con gran senno dell’ arte del disegno, e che formatosi il gusto sul Michelangelo, pur avendo contratti molti difetti, lasciò alcune opere notevoli come, ad esempio, la statua di Giulio III per la Piazza Maggiore di Perugia, — allora giovanissimo, mirava più a mostrare la propria agilità di concezione e il pronto ingegno che a vincere la gara.
L’altro, il Giambologna, che al pari del perugino, senza illudersi di conquistare l’agognata palma della vittoria, non si era voluto lasciar sfuggire l’occasione propizia per dare una prova considerevole delle sue attitudini e del suo valore.
A Vincenzo Danti venne allestito uno studio nel palazzo di Ottaviano De Medici, il Giambologna si rinchiuse nel chiostro di S. Croce. Dice Benvenuto Cellini, che un quinto artista si aggiungesse lungo il cammino ai quattro concorrenti: il figliuolo di Francesco Mosca, detto il Moschino; altri asserisce che si tratti dello stesso Moschino. Ma generalmente si dubita che quest’ultimo abbia preso parte a questaspecie di concorso.
Gli artisti, dunque, si posero al lavoro fra l’aspettazione del popolo fiorentino, poiché queste gare in ogni tempo ed in ogni luogo suscitarono sempre la più viva curiosità, appassionando artisti e profani, formando, a seconda dei gusti, degli affetti e delle simpatie, correnti favorevoli all’uno, piuttosto che all’altro.
E chiunque pensi ai quattro artisti che si disputavano l’onore di dare a Firenze la desiderata fontana, alle proporzioni del colosso, alla meraviglia che aveva acceso non pure in Firenze, ma in tutta la Toscana, l’arrivo dello smisurato blocco di marmo destinato alla statua del Gigante, agli ammiratori de’ singoli artisti, può facilmente comprendere l’ansia con cui tutta Firenze seguiva il febbrile lavoro dei concorrenti e il desiderio ch’era in tutti di poter proclamare il vittorioso.

La fatica non fu lunga, nè eccessiva l’attesa: in breve tempo tutti i modelli furono ultimati. Ma, come abbiamo già accennato, la Corte Medicea non era tale da offrire garanzia di giustizia, e anche in una questione puramente artistica, più dal capriccio o dalla passione, era da attendersi il responso. E d’altra parte, non ad artisti venne chiesto il verdetto: giudice assoluto fu il Duca, del quale, del resto, erano note le preferenze.
Narra, ancora, Benvenuto Cellini parlando del suo modello: "Quando io l’ebbi tutto bozzato, e volevo cominciare a finire la testa, che di già io gli avevo dato un poco di prima mano, il Duca sceso dal Palazzo, e Giorgetto (Vasari) pittore lo aveva menato nella stanza dell'Ammannato, per fargli vedere il Nettuno, in sul quale il detto Giorgino aveva lavorato di sua mano di molte giornate, insieme con il detto Ammannato e con tutti i suo lavoranti. In mentre che 'l Duca lo vedeva, e’ mi fu detto che e’ se ne satisfaceva molto poco; e sebbene il detto Giorgino lo voleva empiere di quelle sue cicalate, il Duca scoteva ’l capo e voltosi al suo messer Gianstefano, disse: "— Va e dimanda a Benvenuto se il suo gigante è di sorte innanzi, che ei si contentassi di darmene un poco di vista. Il detto messer Gianstefano molto accortamente e benignissimamente mi fece la imbasciata da parte del Duca; e di più mi disse, che se l’opera mia non mi pareva che la fussi ancora da mostrarsi, che io liberamente lo dicessi, perchè il Duca conosceva benissimo che io aveva avuto pochi aiuti a una così grande impresa. Io dissi che e’ venisse di grazia, e sibbene la mia opera era poco innanzi, lo ingegno di Sua Eccellenza Illustrissima si era tale, che benissimo lo giudicherebbe quel che ci potessi riuscire finito. Così il detto gentile uomo fece la ambasciata al Duca, il quale venne volentieri: e subito che Sua Eccellenza entrò nella stanza, gittato gli occhi alla mia opera, ei mostrò d’averne molto sattisfazione; di poi gli girò tutto all'intorno fermandosi alle quattro vedute, che non altrimenti si avrebbe fatto uno che fussi stato peritissimo dell’arte; di poi fece molti gran segni ed atti di dimostrazione di piacergli, e disse solamente: 
"Benvenuto, tu gli hai a dare solamente una ultima pelle; poi si volse a quei che erano con Sua Eccellenza, e disse molto bene della mia opera, dicendo: il modello piccolo, che io vidi in casa sua, mi piacque assai, ma questa sua opera si ha trapassato la bontà del modello."
Racconti egli così dell’opera propria e dell’impressione fatta al Duca per millanteria, non è difficile il supporlo, quando si pensi chi era Benvenuto Cellini; il Vasari, infatti, dice che a Cosimo I piacque, invece, assai più il Nettuno dell’Ammannato; ma convien tener presente che il Vasari era per così dire parte in causa. Quanto a noi, non abbiamo difficoltà ad ammettere che il gigante dell’Ammannato non valesse molto di più di quello del Cellini. 

Un artista, però, aveva superato, nel modellare il suo gigante, il Cellini e l’Ammannato, e il suo nome era già sulla bocca di tutti e in tutti era la certezza che sarebbe stato il preferito: quello del Giambologna. Il quale d’un colpo era uscito dalla oscurità, guadagnandosi l’unanimità dei giudizi, accresciuta dalla ammirazione per vederlo egli giovanissimo ed alle prime sue battaglie artistiche, uscir vittorioso da una gara alla quale partecipavano due artisti, l’uno notoriamente tanto protetto dalla Corte, l’altro che aveva già data alla loggia de’ Lanzi un’opera fra le più ammirate. 
Sentendosi, adunque, circondato da tanta simpatia e vedendosi crescere intorno gli amici e gli estimatori, incoraggiato anche dal suo affettuoso protettore Vecchietti, il quale insisteva col Duca Francesco per indurlo ad adoperarsi presso il padre in favore del giovane artista fiammingo, è naturale che il Giambologna incominciasse ad aprire il cuore alla speranza. Ma fu gioia di breve momento. Cosimo I, non avendo veduto alcun lavoro in marmo del giovane fiammingo, persuase o volle persuadere i sollecitatori, che non sarebbe prudente affidargli per la prima volta una così grande impresa, "ancora che da molti artefici e da altri uomini di giudicio intendesse che ’l modello di costui era in molte parti migliore che gli altri e però non volle nemmeno portarsi in Santa Croce a vedere il modello del giovane artista, come del resto non degnò di una sua visita nemmeno il modello di Vincenzo Danti.
E, pressato dalle insistenze del Vasari, il quale non si sa se per amore... paterno — poiché stando, come abbiam visto, a quanto dice il Cellini, egli pure avrebbe lavorato intorno all’opera dell’Ammannato parecchie giornate — o perchè ammirasse sinceramente l’opera di quest’ultimo, impiegò tutta la sua influenza sull’animo del Duca in favore dell’amico "vedendolo, oltre al saper suo, pronto a durare ogni fatica, e sperando che per le sue mani si vedrebbe un’opera eccellente finita in breve tempo." E Cosimo De Medici esercitando anche una volta, la sua autorità di Principe, deliberò che l’Ammannato avesse il marmo e facesse la fontana. Solo, forse, per indorare la pillola al celebre orafo fiorentino aggiunge quasi a giustificazione di aver così deciso perchè l’Ammannato era più giovane di Benvenuto e più pratico di lui a lavorare il marmo."
Il Cellini, invece, attribuisce la decisione alla Duchessa, la quale, profittando del fatto che Benvenuto era caduto malato, indusse il Duca a dar la commissione all’Ammannato da lei protetto, e nota con la sua consueta arguzia che al messaggiero mandatogli dallo stesso Ammannato, e che era uno de’ tanti innamorati di Laura Battiferra, poetessa e moglie del vincitore, per annunziargli la decisione ducale, egli rispose di dire a Bartolomeo di affaticarsi" acciò che si dimostrasse di saper buon grado alla fortuna di quel tanto favore, che così immeritatamente la gli aveva fatto."

Comunque siano andate le cose, certo è che la raccomandazione di Benvenuto era ben lungi dall’essere inopportuna, poiché la decisione di Cosimo I, sostituitasi alla opinione generale e contro il giudizio de’ più competenti, doveva poi dar ragione, come tutti sanno, di uno dei più popolari e saporiti epigrammi fiorentini che tuttora si ripetono dinanzi al Biancone:

Ammannato, Ammannato,

Che bel marmo hai rovinato!


Da una lettera in data 5 aprile 1561, da lui indirizzata a Michelangelo, vediamo che appena vinto il concorso e dopo un breve viaggio a Firenze, probabilmente con la moglie, la poetessa Laura Battiferra, che aveva gran numero di ammiratori e di adoratori, e però può anche spiegarsi.... l’immeritata fortuna del marito, l’Ammannato si pose subito al lavoro. E così, infatti, egli scrive al maestro, mentre gli promette il prossimo invio di un esemplare delle rime della consorte: "Come io fui arrivato in Firenze, feci acconciare la stanza. E col nome di Dio cominciai a lavorare sul marmo del Nettuno, dove sento più la passione d’aver da levare poco marmo che non mi dà fatica a levarne assai. E sono per questa cosa in tanto fastidio che ne sospiro ogni ora."
Lettera cotesta che ha qualche importanza, poiché potrebbe eventualmente attenuare l’insufficienza dell'Ammannato nell’eseguire il Biancone, confermando cioè il sospetto insinuato da parecchi artisti, non escluso Benvenuto Cellini, ed al quale noi pure abbiam fatto cenno, che Baccio Bandinelli per evitare ad altri la possibilità di utilizzare il marmo, lo avesse scemato nella parte superiore. 
Comunque, se la colossale figura, per la perfezione dell’esecuzione, nulla o ben poco lascia a desiderare, certo a queste qualità non corrispondono nè eleganza di disegno, nè nobiltà di invenzione, nè armonia di composizione. La ponderazione, il movimento, il cadere d’ambo le braccia e in generale l’insieme dell’azione lasciano troppo a desiderare, per quanto l’anatomia e i contorni delle pieghe, prese separatamente in esame, attestino un artista non comune, anzi sarei per dire superiore alla fama antipatica che si è creata. Ciò che aggiunge goffagine all’insieme della fontana fiorentina è l’unione nel medesimo gruppo di piccole statue, come quei tritoni che gli scherzano fra le gambe; ma comunque, il giudizio sfavorevole della fontana dell’Ammannato è stato sempre in tutti i tempi concorde dal giorno in cui venne offerta all’ammirazione del popolo ai dì nostri.
Lo stesso Borghini, scrivendo nel suo "Riposo" la vita dell’Ammannato lui vivente, suo concittadino, non risparmiò appunti all’opera colossale, e si racconta che in brevissimo tempo, secondo la usanza, vennero appiccicate al colosso più di mille satire, con le più atroci parole contro l’artista.

Anche una volta adunque la Repubblica fiorentina si era mostrata non più garante imparziale del vero merito degli artisti, facendosi così responsabile, o almeno contribuendo all’annichilimento e al decadimento del gusto. Lo scandalo fu grande; ma chi più si adirò fu Benvenuto Gellini, e fra le altre testimonianze, oltre alle sue memorie, una ne abbiamo di Leone Leoni, in una briosa lettera da lui indirizzata a Michelangelo:
"Domani mattina, gli scrive, se piace a Dio, mi sbarazzerò di queste vespe che mi ronzano nelle orecchie, di tutte le loro azioni e tutte le loro parole, poiché partirò per Milano, e lascierò essi alla esecuzione dei loro giganti: l’Ammannato ha ottenuto il marmo e l'ha trasportato presso di sé, Benvenuto fulmina e sputa veleno e schizza fuoco dagli occhi.... il Fiammingo è condannato alle spese, ma lavora la sua terra con grande proprietà."
Il fiammingo era il Giambologna, il quale da tutti compassionato e compianto, e benché amareggiato di vedersi strappata l’ambita commissione da un artista mediocre, stordito dal fracasso che sentiva intorno a sé e degli incitamenti alla ribellione che gli venivano d’ogni parte, buono, forte, generoso, cavalleresco, non si sdegnò, non si ribellò, non si perdette d’animo, non si piegò su sé stesso a piangere la ingiustizia patita.
Egli era di quei forti che avendo la coscienza del proprio valore e la fiducia nell’avvenire, senza impazienza attendono l’ora della rivincita attingendo nel consenso dei maestri e del popolo nuova forza per prepararsi e disporsi alle future battaglie. 

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