Una festa in Arno sul ghiaccio

Una festa in Arno sul ghiaccio
inverno del 1604

Il 17 di Gennaio si celebrava Sant'Antonio Abate che viene ricordato dai Fiorentini con un proverbio e un ritornello:

Sant'Antonio la gran freddura
San Lorenzo la gran calura
L'una e l'altra poco dura
Sant'Antonio dalla barba bianca
Se non piove la neve non manca.

Tratto da Cavagna San Giuliano, Il nuovo osservatore fiorentino, Firenze, Tipografia coppini e bocconi, 1885.
"Il principe Don Virginio Orsini, gentiluomo di Corte, dedito molto a prender parte ai pubblici spettacoli, ebbe in mente, siccome era accaduto altra volta, di darne egli stesso uno nobilissimo in vantaggio di tutti, e indettone il giorno, che fu il 31 decembre, divertì la cittadinanza con quanto, tenendomi a uno scritto dell’ epoca, vo’ qui ricordando.
La giornata, rigidissima ma asciutta, aveva permesso alla popolazione di accalcarsi sui ponti della Carraia e S. Trinità, lungo le sponde e nei tanti palazzi che vi intercedono, per modo che di per sè codesto anfiteatro dava un colpo d’occhio stupendo. Sotto i superbi archi di quest’ultimo ponte, nascosti da tende, erano raccolti tutti coloro che dovevano prender parte al divertimento, quando, alfiora destinata, dall’arco verso Santo Spirito ne uscirono con l’ordine seguente.
Precedevano sei tamburi e dopo altrettanti trombetti nobilmente vestiti; quindi un gran numero di maschere nelle foggie più strane, a piedi nudi per correre un palio; dietro a questi giovani vestiti da ninfe adattati su sedili senza spalliera, alti forse 60 centimetri, con le gambe distese in avanti ed adatti bastoni ferrati in punta onde sospingersi di per sè scivolando, contraffacendo nel modo più’ridicolo e stravagante chi ha la disgrazia di non possedere le gambe. Oggetto di saporitissime risa erano coloro che non sapevano nè andare avanti, nè fermarsi senza farne uso essi stessi o senza cadere sconciamente. Venivano in ultimo i gentiluomini per la giostra sopra slitte fatte con bei disegni a modo di antiche quadrighe, avendo, in luogo di ruote, il taglio dell’asse estremo foderato di rame per scivolare più facilmente. Questi veicoli erano tirati da uomini non altrimenti che si pratica per i navicelli nel risalire i fiumi. Sopra ciscuna slitta vi era accomodata una sella invisibile e sopra di esse i cavalieri per potersi meglio prestare a ciascun movimento, talché quel veicolo serviva da cavallo, da cocchio e da barca.
I primi a comparire con questi arnesi furono Cammillo Suarez e Francesco Martelli, in abito di selvaggi tutti coperti da lunghissimi peli con volti orribili e spaventevoli, barbe e capelli ispidi e scarmigliati, aventi ciascuno in mano una grossissima clava, al braccio un rozzo scudo ed oscuro dove, senza alcuna impresa, erano questi due versi:

De’ monti Caspi siam nati tra Dami
Venuti per veder gli altrui costumi.

Sedevano sopra le slitte coperte di edera ed altre erbe uomini selvatici vestiti nella stessa guisa dei conduttori; questi si traevano dietro Don Fernando Suarez in abito di cavaliere straniero, con calze intere di colore di fior di spigo foderate di tela d’ argento; corsaletto di teletta simile con oro, falde e mantellina d'ermisino rosso, guernita dello stesso metallo; cimiero alzato con pennacchiera ricca e maestrevolmente acconcia, con due ali a foggia dello zuccotto di Mercurio; scudo, impresa non aveva, nè motto.
Dopo lui venivano Bartolommeo Bettini e Antonio Magalotti sotto le sembianze di Monaldetto della Pressa e Fulcieri Cavicciuoli, antichi nostri concittadini; in capo portavano lunghi berrettoni orlati di vaj con picchierà ben alta; in dosso vesti di scarlatto con guarnizioni turchine e fodere di teletta d’argento, davanti lunghe fino al ginocchio, di dietro sciolte a modo di lucco; nello scudo del Bettini per impresa una quercia, percossa dalla folgore, smembrata tutta, eccetto una lieve parte del tronco e col motto Sat Superest.
Seguiva Piero Guicciardini che, non essendo riuscito per la brevità del tempo a dar vita ad un ingegnoso apparato, comparì in abito di magnate russo con un nobilissimo pelliccione, folta e candida barba da metter freddo a vederlo. La sua slitta, eseguita con graziosa proporzione, era sospinta da servitori con vesti analoghe alla sua. Dopo di lui si mostrarono Alessandro del Nero e Carlo Soderini in sembianza di nobili cavalieri Polacchi con calze intere di scarlatto, casacche di raso giallo, scollate, vesti di scarlatto foderate di martore con mezze maniche pendenti dalle braccia, berrettoni di velluto soppannati di martore con penne lunghissime e un mazzo d’Aironi ciascuno fermati da gioielli ed ai fianchi le scimitarre; nello scudo avevano per impresa una saetta spiccantesi dalle nuvole col motto: Suo valor combattuto. Incedevano nelle loro slitte a fiamme rosse su fondi d’argento cui erano adatte trombe di fuoco che mentre venivano sospinte dagli otto servi, pure vestiti alla polacca, mano a inano andavano incendiandosi con gradevolissima vista.
Dopo questi comparve Filippo Valori in abito di donna Turca con splendida veste di damasco rosso col bordo di perle ed altre gioie vagamente accomodate ed il resto‘deH’acconciatura stupendamente adatta a quel caratteristico costume; portava egli una targa ed in essa, come impresa, una nuvola sollevata dal sole, col motto: Ove alzata per me non fora mai; volendo nella nuvola alludere a sè, nel sole a Don Virginio Orsini; non aveva cartello adducendo che glie ne era mancato il tempo; la slitta su cui posava era distinta da svariati e vaghi ornamenti e sospinta da quattro giovani in abiti verdi e pavonazzi, pure alla turca, e da due stupendi mori in abito rosso.
Dietro a lui apparvero tosto Tommaso Capponi e Niccolò Giugni in abito di re mori, ma singolarissimi in quanto sembravano nudi; i polsi avevano cinti di coralli, le braccia, nella parte superiore, da cerchi d’oro con gioie, al collo file di coralli ben grossi, al volto maschere con perle pendenti dai labbri, agli orecchi gioie. Portavano in testa un berretto formato di penne rosse, bianche e turchine a modo di reale corona, alle spalle un breve mantello di teletta d’oro, nelle destre mani una zagaglia, alle sinistre braccia uno scudo avente per impresa una testa di Medusa senza motto alcuno. Questi, a differenza degli altri personaggi, stavano in piedi sulla slitta, formata da due sirene e spinta da mori e pubblicarono il cartello seguente:
 

Arnaut di Guangara
Siami di Cano
 

In più ragguardevole e stupendo apparato comparve l'anima di quella festa, il capo di tutti quei gentiluomini, Don Virginio Orsini in figura di un pascià, vestito di una giubba turca di scarlatto, sparsa di lune d’argento e foderata di pelle di cigno, con turbante ricchissimo; sopra questo una pennacchiera che s’innalzava per circa un metro e 80; portava l'arco, il turcasso con treccie e la scimitarra; nella mano destra una lunga lancia con svolazzo rosso, con luna d'argento; al sinistro braccio uno scudo con altra mezza luna ed il motto Nelle tenebre altrui splende beata. La slitta, alquanto maggiore delle altre, tutta messa a oro, aveva la figura di due uccelli ad ali di cigno lumeggiate con lo stesso metallo. A lato, fuori della slitta, lo accompagnava un personaggio in abito di Rajà; precedevano la slitta due personaggi con vesti all’antica, senza giubbe, e tiravano la slitta stessa quattro individui in abiti turchi cosparsi di lune, e quattro altri, non dissimilmente vestiti, armati di lancia, spingevan la stessa.
Venivano dopo Giulio Riario e Bardo Corsi in per sone di maghi quali provenissero dalle regioni infernali; barbe aveano lunghissime, in testa grandi e ricchi turbanti, ricolmi di gioie e di penne, in dosso vesti lunghe di velluto rosso ricamate d’oro, cinte con retini dello stesso metallo ; calzari di velluto rosso con gambali ricamati pure a oro, in mano verghe d’ argento; le slitte, dipinte a vari colori, erano pur tocche con argento e oro ed apparivano condotte da draghi assai grandi ad ali verdi spiegate e con specchi, i quali mostri per tutto il giro gettarono di continuo fuochi per bocca.
Ultimo dei giostratori a far mostra di sè fu Manfredi Malaspina sotto le sembianze di Pluto, con lunga barba, veste tutta rossa e sopravveste nera, corta, con maniche ornate all’alto all’antica, fiamme e bidenti d’argento, e pendenti dall’orlo fregi e veli neri bene intramezzati con telette d’ argento; in testa un cimiero rosso ben disegnato; nella destra mano un bidente lavorato d’argento che al primo comparire si trasformò in un fuoco artificiale vaghissimo restando quindi nella mano di quel gentiluomo a modo di scettro. La sua slitta rappresentava un drago di color verde e nero, sparsa d’argento e di specchi, il quale animale gettava fuoco per bocca continuamente mentre la slitta era sospinta da quattro diavoli con vesti dipinte a fiamme, armati pur essi di bidenti argentati.
Chiudevano la mostra i due fratelli Niccolò e Raffaello della Fonte, conducenti una barca assai grande a figura di nave con invisibili ruote e congegni, perchè ella potesse muoversi e girare facilmente per ogni parte. Era guidata da quattro persone in abito turco con stanghe ferrate in punta, atte a sospingerla; i gentiluomini portavano abiti da pascià, rossi, assai ricchi ed in testa turbanti; l’albero della nave era messo a fuochi artificiali e alla gabbia una girandola che appena presentatisi al pubblico prese fuoco e serpendo andò mano a mano inalzandosi e finita la quale incendiarono gli altri fuochi con diletto tale degli spettatori che tenendo gli occhi intenti a quel divertimento non si erano accorti come con quello fosse la mostra finita.
Ritiratisi ancor questi, sotto l’arco del ponte a Santa Trinità verso il palazzo Spini si riunirono coloro che dovevano prender parte al primo palio che doveva essere degli Scalzi; quelli per il palio delle seggiolette sotto l’arco centrale, i gentiluomini per la giostra dalla parte di via Maggio. Il palio degli Scalzi riesci uno dei più graziosi e ridicoli spettacoli di che si avesse memoria, perchè lo sdrucciolevole suolo non consentendo ai piedi di sostenervisi, col farli sdrucciolare all’ indietro si vedevano cadere in avanti come fantocci, nè potendosi facilmente rialzare, senza poter far quattro passi, l'uno soprammettendosi ai fi altro fra loro si inviluppavano e grottesco all’eccesso riesciva il loro disvilupparsi. E così, ora con le reni, ora con le mani, tanto mescolatamente cercavano di condursi in avanti che fu impossibile in tanta confusione riconoscere e dichiarare il vincitore; e ciò con tanto gusto degli spettatori che si può dire ciascuno di loro tanto si affaticasse a ridere quanto i concorrenti a portarsi alla meta.
Poco dòpo incominciò il palio delle seggiolette, con trattenimento non meno bello per la strana foggia con la quale era composto e per la stravagante forza che si vedeva fare di braccia, di capo e di spalle e per le molte cadute che i corridori facevano fuori delle seggiole cadendo per terra distesi di salto, non altrimenti fossero come palle gettati. Questi ritrattisi i cavalieri incominciarono a correre la giostra e romper le lancie al Saracino che in quel frattempo si era accomodato sopra uno stile con quattro uomini che lo reggevano per di dietro, con calzari ben ferrati e tenaci.
La nuova e strana maniera del correre di alcuni di quei cavalieri con tanta velocità, la gagliardia loro nel tentare d’investire il Saracino, come divertì straordinariamente ogni spettatore, così fu di pericolo a quelli che lo reggevano, i quali ad un certo punto furono rovesciati con lui. Le lancie che vi si erano rotte contro non erano state meno di venti ; lo spettacolo era riescito bene, ma cambiato obiettivo, presero ad investire piccoli anelli e quelli infilare nelle lancie le quali talvolta urtando nello stesso tempo, gli anelli andavano in pezzi non rimanendo preda di alcuno, quindi gettate le lancie, fatti altri combinati esercizi diedero fine alla parte loro serbata. Dopo questo comparve un cavallo montato da un messere Alessandro, saltatore dei più celebrati dell’epoca, non inferiore in maestria ai Fiamminghi ed ai Tedeschi, allora per tali esercizi in grandissima fama, il quale durante tutto lo spettacolo aveva a piedi passeggiato con grazia e disinvoltura indicibile per tutta l’arena, e qui di nuovo fece quelle meraviglie che solevano vedersi da lui sul solido terreno, tenendo a compagno un eccellente cavallerizzo Spagnuolo ai servizi del principe Orsini che dimostrò d’esser uno di quelli che più perfettamente e leggiadramente conoscesse si nobili esercizi.
Già era fatto scuro, nè più di quella completa gioia, di quella festevole e memoranda giornata non stava che a rimanere il ricordo, quando si videro collocare presso l’arco centrale del ponte alla Carraja sei grandi botti ridotte a forma arrotondata come fossero immense palle, cinque delle quali rosse, e l'altra azzurra e se ne formò un’ immensa arme Medicea e con pezzi di legname un’adeguata corona chiusa dal giglio fiorentino, e, dato fuoco al tutto, divampando ne uscirono fuora e si sparsero per l'aria migliaia di razzi rimanendo per più ore su quel lucido elemento, a chiusura dello spettacolo, l'incandescente simulacro reale."

Hendrick Avercamp (1585-1634). Pittore olandese. Paesaggio invernale con pattinatori, c. 1608.
Rijskmuseum. Amsterdam. Olanda.

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