Storia del reduce di guerra

Storia del reduce di guerra Arturo Bargellini 
Nato a Groppoli (PT) il 30 luglio del 1908 

Arturo Bargellini e la divisa di Cavalleggero

 

Arturo era quarto di 8 figli e cominciò fin da piccolo a lottare con le insidie della vita, per esempio, insieme alla sorella da piccolo percorreva chilometri per raggiungere la scuola, affrontando acqua e fretilo, con la cartella sulla schiena e rilegata coi fil di ferro perché non c'era possibilità di averne altre e gli zoccoli di legno detti a pianella ai piedi. Appena un po'più grande suo padre fu chiamato a combattere la prima guerra mondiale e Arturo restò solo con la madre ad accudire i fratelli più piccoli e a fare i lavori dei campi, i compiti di scuola li faceva la sera tardi alla luce di un lumino ad olio posto su una pentola rovesciata per fare più luce. Nel 1929 fece il servizio militare e precisamente a Bologna, nel Reggimento lanciai, poi nel 40 venne richiamato alle anni. Nel 1941 era stanziato a Bologna col 3° squadrone Cavalleria Savoia e da li parti per la Campagna di Russia, viaggiando per 21 giorni su un treno merci; nell'ex Urss trascorse due freddi inverni nelle valli di Kiev. Nell' intervista che lui rilasciò alla Nazione del 1° agosto 2010, Arturo racconta con un'invidiabile lucidità: "Quelli fra il 1941 e il 1942 furono mesi difficilissimi: in Russia trascorremmo due inverni senza avere l'abbigliamento adeguato per quel tipo di freddo. Passavamo lunghi giorni in trincea, cercando di coprirci con la neve per evitare di diventare bersaglio dci Russi". Cene volte in battaglia era costretto, per salvarsi, a rifugiarsi fra le piante dei girasoli e una volta ci rimase nascosto per 19 giorni e alimentandosi con cibo buttato dagli aerei. Sempre in quel'. intervista, Arturo disse di considerarsi fortunato per essere riuscito a sopravvivere alla guerra e ricordava spesso i suoi compagni che purtroppo non l'avevano, contrattacco dei Russi li costrinse a ritirarsi e la ritirata fu tragica II clima era freddo, il ghiaccio per terra non permetteva di far camminare i cavalli, che perciò avevano bisogno di ferri speciali.

Spesso i militari, che purtroppo non indossavano scarpe e vestiti adatti a quel clima, avevano gambe e piedi congelati. Ogni giorno ne morivano tanti e venivano seppelliti in lunghissime fosse. Il suo reggimento, tornato in Italia, fu dislocato a Parma e poi a Mantova. Arrivò l'8 settembre del '43 e proprio da Mantova lui spedì una cartolina postale datata appunto settembre (ma la data del giorno non è ben leggibile) in cui conclude dicendo ai familiari "di farsi coraggio". Dopo l'armistizio e il disarmo, Arturo dovette scegliere se continuare a combattere nelle file dell'esercito fascista oppure essere inviato in un campo di detenzione in Germania. Arturo rifiutò l'arruolamento, venne considerato "prigioniero di guerra" e avviato al lavoro coatto. Venne deportato in un campo di concentramento, uno dei cosiddetti Stammlager, i campi per i prigionieri di guerra. Lui era in quello denominato con la sigla XIII C. La vita nel campo era dura, Arturo lavorava 12 ore al giorno (doveva fabbricare cuscinetti a sfera per le armi), l'alimentazione era scarsissima e per sfamarsi era costretto a rovistare nei bidoni della spazzatura per raccogliere bucce di patate o qualche altra cosa. Dalla prigionia spedì alcune lettere ai familiari, la posta, ovviamente, era controllata e lui non poteva dire di trovarsi male o lamentarsi per qualche cosa. 
 
 

Lettera di Arturo al padre 

 

La lettera è costituita da un unico foglio piegato e richiuso: sulla facciata interna, c'era il testo della lettera e sul retro, corrispondente alla busta, in alto c'è la dicitura Griegsgefangenenpost, con traduzione in francese (corrispondenza dei prigionieri di guerra) e ovviamente c'erano anche il nome del mittente e quello del destinatario.

 

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