Cimabue, Cenni di Pepo

Cimabue
pseudonimo di Cenni (o Bencivieni) di Pepo (Firenze, 1240 circa – Pisa, 1302)
 

Giovanni Cimabue nacque nel 1240 a Firenze, città che ebbe il primato su tutte le altre dell' Italia nel dare i natali ad uomini illustri, in ispecie ad artisti; tantoché fu spesso chiamata l'Atene d'Italia.
Difatti, come una volta, Atene raccoglieva in sè il fiore dell'ingegno dell'antica Grecia; così Firenze fu culla o ritrovo dei più celebri Italiani durante tutto il periodo che fu chiamato del primo e del secondo Rinascimento, perchè due volte il mondo artistico antico parve, in essa, risorgere.
Il «Padre della pittura» nacque dalla nobile famiglia dei Cimabue, ed avendo rivelato fino dai primi anni il suo bell'ingegno, fu mandato a studiare presso un frate, suo parente, che viveva nel convento di S. Maria Novella, ove insegnava ai novizi a leggere ed a scrivere. Cimabue si mostrò svogliato in quanto allo studio, e solo avido di imparare il disegno, per cui sentiva una forte inclinazione. Il suo ingegno invero non chiedeva altro che il migliore mezzo di potersi sviluppare, e l'occasione propizia non tardò a presentarsi, poiché intorno a quegli anni erano venuti dalla Grecia a Firenze alcuni valenti pittori per dipingere affreschi nella chiesa di S. Maria Novella. Il giovane prese grande interesse a vederli lavorare, e si mostrò così intelligente e così desideroso di imparare, che trovò buona grazia presso quegli artisti stranieri, e fu da loro istruito nel maneggiare il pennello e nel mescolare i colori.​ Allora, il Gimabue si mise con tanto ardore a studiare la pittura, che, in breve tempo, avendo superato in valentìa gli stessi suoi maestri, incominciò a dipingere per conto proprio, nelle chiese di Firenze ed a ricevere numerose ordinazioni di pitture sacre, perchè i soggetti religiosi erano i soli allora trattati dai pittori e dagli scultori.
La sua operosità fu grande, perchè egli lavorò non soltanto a Firenze, ma anche ad Assisi nella Basilica di S. Francesco, ove più tardi Giotto suo scolare, doveva condurre a maggiore perfezione la incominciata storia del serafico Poverello.
La fama di Cimabue si era talmente estesa, che i Pisani lo invitarono ad eseguire il mosaico dell'Abside nel loro splendido Duomo già in gran parte costruito, ma non ancora terminato nei particolari dell'ornamentazione.
Gimabue per compiacere a quel popolo artistico, fece il disegno del magnifico mosaico rappresentante il Cristo in gloria, seduto sopra un trono, nell'atto di benedire il mondo. Tornato a Firenze, egli eseguì numerose pitture su legno per altare. Celebre fra queste è la grande tavola o Maestà rappresentante la Madonna col Bambino, seduta in trono e circondata da sei angeli, che trovasi tuttora in una oscura cappella di S. Maria Novella.
Questo bel quadro, dai colori già smaglianti, ma ora anneriti, dal lucido fondo d'oro, destò tra i Fiorentini di quel tempo tanto entusiasmo, che venne trasportato in trionfo a braccia tra la folla plaudente, dallo studio del pittore fino alla chiesa di S. Maria Novella, alla quale era destinato.
Ci narra il vecchio biografo Vasari, che tanto fu il tripudio popolare in quella fausta occasione, che la strada di dove passò il prezioso dipinto, nel suo transito, venne, d'allora in poi, chiamata Borgo Allegri, nome che tuttora conserva. Ma la critica moderna afferma invece, con maggiore probabilità, che quella strada prese nome dalla famiglia degli Allegri, che, una volta, vi abitava. Altra poetica storiella dice che mentre Gimabue dipingeva quella sua famosa Madonna, fu visitato nel suo studio o bottega, come allora chiamavasi, dal re Carlo d' Angiò, il quale, trovatosi di passaggio per Firenze, volle vedere il gran maestro fiorentino, e a tale scopo si recò in grande pompa, con numeroso seguito, alla modesta casa di lui, situata in mezzo ad un orto presso l'antica porta S. Piero. Il re si trattenne a lungo ad ammirare la pittura non ancora terminata; e, come dice curiosamente il Vasari :
«nel mostrarsi al Re, vi concorsero tutti gli uomini e tutte le donne di Firenze, con grandissima festa e con la maggiore calca del mondo».
Lo scrittore inglese Symonds, nel suo bel libro sul Rinascimento dell'vte in Italia, parlando di questa allegrezza popolare ed artistica, osserva :
«Questa fu la festa della nascita di ciò che oggi il mondo ammira ed apprezza come pittura italiana. In questo atto pubblico di gioia, il popolo fiorentino riconobbe e rese entusiastico onore all'arte risorta dalla tomba e venuta tra esso. Pensiamoci un po' sul serio! È ben meravigliosa cosa davvero che tutto un popolo, tutta una cittadinanza, accogliesse con simile modo gioioso la venuta tra esso di un nuovo elemento di forza e di bellezza, sotto forma d' arte. E ciò prova la delicata sensibilità del popolo fiorentino per le cose belle; mostra pure quanto questa viva simpatia emanante spontanea dal popolo stesso, fosse atta ad ispirare e fortificare gii artisti nel loro lavoro».
Difatti, mirando oggi quella famosa pittura annerita dal tempo, quella maestosa Madonna, quei mirabili angeli adoranti che le fanno corona, desta meraviglia pensare come Cimabue avesse già potuto tanto emancipare il suo pennello dal manierismo Bisantino e dalla tradizionale convenzionalità, per infondere in quella sua creazione un soffio così vitale.
Sei secoli sono ormai trascorsi d'allora in poi: il mondo era più giovane e gli animi più ingenui; non sorprende perciò se quelle prime manifestazioni dell'arte, ancora nella sua infanzia, venissero accolte come quasi miracolose rivelazioni del Bello.
Così, quantunque ben lungi ancora da quella perfezione tecnica raggiunta in seguito da altri pittori, Cimabue fu il​ primo, a detta del Vasari, ad infondere un'anima nella pittura, ed egli tracciò la nuova via luminosa che Giotto ed i suoi discepoli dovevano poi gloriosamente seguire e continuare.​ 
Della vita del Gimabue nulla si sa, fuor che essa trascorse tutta nel servizio dall' arte e della religione. Egli morì nel 1302, e gli fu data onorevole sepoltura in S. Maria del Fiore, dove una lapide io ricorda. Il suo più celebre discepolo fu Giotto, il quale superò di gran lunga il maestro, come lo afferma anche Dante nei noti versi del Purgatorio:


«Credette Cimabue, nella pittura,
Tener lo campo; ed ora ha Giotto il grido,
Sì che la fama di colui oscura».
 

Evelyn, Cavagna Sangiuliani di Gualdana, Antonio, conte, 1843-1913, Antichi pittori italiani, Editore A. Solmi, 1905​
 


Ritratto del Cimabue dalle Vite di Vasari


Maestà con san Francesco, Assisi

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